Alessandro Paroli e la sua immensa disponibilità di atleta generoso - anche con se stesso - e di uomo di valori, non lo scopriamo certamente oggi. Da poco più di una settimana ha fatto rientro a casa, dopo la bellissima esperienza che lo ha portato a dare il suo contributo alla Nazionale Paralimpica ai Giochi di Rio de Janeiro. Cliccate per leggere il racconto della sua avventura, redatto direttamente da lui (continua...)

"Descrivere a parole le sensazioni e le emozioni che i Giochi Paralimpici sono in grado di trasmettere è pressoché impossibile. Quando sono atterrato a Rio per l'inizio di questa esperienza mi ero ripromesso di godere a pieno di tutto ciò che la città mi avrebbe potuto offrire: dalle bellezze naturali, al calore e al colore dei brasiliani. Dal samba dei locali di Lapa alle churrascherie della famosa picanha, fino ai baracchini sulle spiagge più famose del mondo che vanno avanti a Caipirinhe e cocco fresco. Le suggestive panoramiche dal Cristo Redentore e dal Pao de Azucar. E' stato tutto parte delle mie due settimane a Rio. Ma, appunto, una parte.

Perché quando sono atterrato a Rio non avevo fatto i conti con quanto potesse essere avvolgente e totalizzante l'atmosfera dei Giochi Paralimpici, come di quelli Olimpici: la cerimonia di apertura, il villaggio olimpico, il parco olimpico, le gare, le persone. Il Villaggio Olimpico è come fosse un piccolo quartiere dove convivono per 15 giorni una cinquantina di nazioni diverse, senza rivalità, se non quelle sportive. Condividono gli spazi: la palestra, o la mensa, aperta 24 ore al giorno per dare modo a tutti di mangiare agli orari più disparati. Non dormivo all'interno del villaggio, ma ci sono entrato ogni giorno per effettuare gli allenamenti con i ragazzi che dovevano preparare le gare di scherma ed ogni volta ho osservato qualcosa di nuovo. Piccole cose che, per la prima settimana, mi hanno aiutato a calarmi nell'atmosfera dei Giochi Paralimpici.

Per entrare in clima gara, per sentire che effetto facesse vedere atleti vincere le medaglie mi sono goduto una serata di finali di nuoto. E non me ne sono pentito: l'Acquatic Center era uno spettacolo, un cubo blu, pieno di gente, pieno di musica. Ho avuto la fortuna di sentire l'inno di Mameli, subito, per la spettacolare medaglia d'oro nei 200 misti di Federico Morlacchi; e già i brividi si sono impossessati del mio corpo. Ma la scarica di adrenalina che ho ricevuto nel vedere tutto il coloratissimo pubblico carioca urlare, incitare e tifare per il beniamino Daniel Dias è stata indescrivibile.

Poi arrivano le “nostre” gare. L'ingresso al parco Olimpico, l'Arena Carioca 3. La tensione diventa tangibile, anche tra i ragazzi. I primi due giorni non esultiamo mai, dalla sciabola e dalla spada individuale non arrivano medaglie, nonostante sia Alessio Sarri nella sciabola che Matteo Betti nella spada potessero ambire a prenderla. Li guardo, ci scambio due battute e percepisco la loro delusione nonostante tentino di mascherarla. Forse perché devono ancora affrontare la gara di fioretto. Ma il velo di tristezza non accompagna solo loro due: lo colgo nei due ct, Fabio Giovanni e Francesco Martinelli, e nei miei due omologhi, gli sparring partner di spada e sciabola Gianfranco Di Summa e Pietro Manduca.

Il terzo giorno arriva il fioretto e, inevitabilmente, essendo la mia arma e quella per cui sono maggiormente coinvolto, la tensione che mi attanaglia è salita al livello giusto. E' tensione sana, quella che si trasforma in cattiveria agonistica quando sei in pedana. L'ho provata tante volte durante le mie gare e mentre cammino verso il parco Olimpico spero di trovarla anche nei ragazzi che dovranno affrontare la competizione. Ho una fortuna: sono al fianco di Simone Vanni, ct del fioretto, colui che mi ha voluto a Rio ad aiutarlo. Simone ha vinto le Olimpiadi di fioretto nel 2004 e ho la certezza che sappia come affrontare una giornata come questa. Colgo l'occasione per osservarlo “muoversi” e sono sicuro che mi tornerà utile. Iniziano le gare e presto mi catapulto in una sorta di trance agonistica che mi trasforma: urlo, mi arrabbio, esulto e nel giro di un'ora ho quasi finito la voce. Neanche me ne rendo conto e la fase dei gironi eliminatori è già finita: iniziano gli assalti “pesanti”. Quelli nei quali il fioretto pesa come un bilanciere e il giubbetto elettrico dell'avversario sembra piccolo come il pezzo di un puzzle. Continuo ad agitarmi, a farmi in quattro per seguire tutti, ma sembra non bastare e due assalti mi rimangono a gola come se gli avessi tirati e persi io. Marco Cima e Matteo Betti escono (in due categorie diverse) rispettivamente in semifinale e ai quarti, entrambi per 15-14. E' durissima da digerire, vorrei andare da entrambi e confortarli, forse arrabbiarmi per l'occasione persa. Ma mi metto nei loro panni e non dico niente; rimango concentrato perché nel frattempo in gara  è rimasta solo un'atleta. Bebe (Vio, ndr) sta tirando come sa e nessuna delle sue avversarie sembra potersi opporre: cominciano a venirmi in testa pensieri di medaglia, la gioia, le urla, il podio, magari l'inno. No, sto correndo troppo. E' la più forte, è un fenomeno, ma questa è una gara particolare e nonostante Bebe Vio sia una delle persone più determinate che abbia mai conosciuto, so che la sente questa Paralimpiade; forse un po' la teme. Tutti parlano di lei, tutti aspettano lei. La semifinale una formalità, la finale un trionfo. L'esultanza dopo la quindicesima stoccata è una scarica energetica potentissima, Bebe si dimena sulla carrozzina come un ossesso, urla, piange e noi con lei. Anche il palazzetto è in delirio. Ha conquistato tutti e tutto.

Le emozioni non finiscono, perché l'ultimo giorno c'è la gara a squadre: i ragazzi non si esprimono al meglio e mancano le semifinali per un soffio. Ma le ragazze sono determinate a prendersi quella medaglia che manca da venti lunghi anni. Andreea Mogos e Loredana Trigilia, insieme a Bebe Vio tirano da squadra: una per tutti, tutti per una. Vengono eliminate dalla fortissima Cina in semifinale, ma la finalina per il bronzo contro Hong Kong è uno spettacolo. Se una ha un passaggio a vuoto, le altre rimediano e così via fino all'ultima frazione. Bebe completa il capolavoro con una rimonta folle, di quelle che ti levano il fiato e ti fanno battere il cuore a mille: alla fine scendiamo tutti in pedana a cantare, ballare, esultare. Sul podio le lacrime e i sorrisi si mischiano, non suona l'inno di Mameli ma il bronzo è una medaglia prestigiosa.

Ho lavorato con questi ragazzi per un anno, con alcuni di loro sono entrato in grande confidenza; ho provato a trasmettere loro la mia esperienza quasi ventennale di scherma “in piedi”, a fidarsi di più delle loro qualità. Non so se ci sono riuscito, e neanche se ho trasmesso un pizzico di quello che so. Ma di una cosa sono certo: loro hanno arricchito me. Nel momento in cui mi sono reso conto che li stavo accompagnando nella preparazione dei Giochi Paralimpici, cioè la più grande manifestazione sportiva alla quale un'atleta con abilità diverse possa ambire, sono cresciuto, sono maturato. Ho cominciato a curare il dettaglio e ad ascoltarli: mi sono, insomma, calato in una parte che non mi apparteneva ma che mi ha divertito, migliorato, emozionato".